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Perveniamo ad un incontro con il musicista e artista trans-mediale Sergio Armaroli dopo averne seguito buona parte delle produzioni discografiche, già circa venti a titolo partecipativo di cui metà da leader o contitolare, spese entro un arco eminentemente d’avanguardia, inclusivo del jazz nelle espressioni avant- ma anche semi-tradizionale, di fatto parte di una più articolata espressione artistica che conta anche scrittura o espressione visuale.

Del polivalente milanese, praticante di strumenti a lamine e teorico d’estetica, si apprezza la progettuale partecipazione ad un dibattito di ricerca  evidentemente tuttora fecondo, ciò al fianco di nomi ponderosi e in qualche caso storici di questo ampio filone, ed il dialogo ne disvela l’identità di conversatore colto e focale nelle risposte, analitiche ma mai pleonastiche, non prive di ermetismi ed esprimenti uno stratificato quanto eclettico background formativo ed un approccio contagiosamente positivo all’arena culturale contemporanea.

Esponiamo quanto da Egli raccolto nel suo condividere una inesausta curiosità, ed una personale e composita (quanto entusiasta) visione della “avventura” della sperimentazione.

D.Particolarmente nel Tuo caso ci si deve approcciare in termini artistici complessivi, non ristretti al mero ambito musicale, trattando di un “ricercatore” ed “artista” polivalente e multimediale.

 

Sergio Armaroli: Per quanto mi riguarda la musica si configura come un campo di esperienza, parte di un processo di indagine e ricerca più ampio. Il suono ha per me una natura molteplice: visiva e linguistica. Tutto è unito.

La mia pittura, la mia poesia sono parte integrante di questo percorso che ha molti affluenti; la musica mi ha insegnato la disciplina e il metodo, la dimensione dell’ascolto e il rispetto. L’improvvisazione e il jazz sono, nella mia concezione, una pratica estensiva e una langue maternelle, come la chiamano i linguisti.

Mi piace molto essere definito “ricercatore”: credo che questo rispecchi perfettamente la mia intenzione di comprendere e di analizzare, non credo all’espressione se non come risultato finale, inconsapevole, come un gesto di totale libertà. In verità si tratta di studiare con umiltà e di tentare una traduzione da un linguaggio all’altro fuori dallo sterile formalismo dello stile. La parola “artista” mi piace invece poco: non mi sento un artista multimediale, io non salto da un medium all’altro, non raccolgo mezzi e strumenti ma cerco una sintesi in una unità dell’esperienza al di fuori di qualsiasi paradigma romantico. Credo sia importante ricostruire un contesto complessivo, un luogo che possa dare un senso e uno scopo alla pratica musicale, troppo spesso svilita in una condizione di semplice esibizione o di riproposizione di modalità, stili e forme, voglio dire con questo che il jazz in particolare necessita di questo sforzo culturale. Andare oltre il contingente musicale per aprirsi all’uomo e alle idee che sono sempre luoghi abitabili, habitat complessi. Io intendo il jazz come la Musica dell’Uomo… ma forse bisognerebbe superare anche questa definizione e questa parola: jazz, troppo inflazionata. Io, per esempio, preferisco “musica significante” dove e con cui dare un senso a questo gesto, a questo suono… e ritorniamo all’idea di una langue maternelle.

Ci si chiede quale sia nel vissuto dell’Artista il “bilancio” delle sue attività, in senso sia materiale che in senso relazionale, esperienziale…

La mia attività ha vissuto varie fasi, molte sono state le collaborazioni e le esperienze. Ho iniziato a suonare molto giovane partendo dall’improvvisazione pura, che ho sempre legato a un immaginario percussivo di suoni ambientali, a un paesaggio più sonoro che musicale; successivamente mi sono formato in Conservatorio con studi mirati in strumenti a percussione, composizione, musica elettronica e jazz. È stato un periodo che ricordo con grande nostalgia, e a cui sono particolarmente riconoscente: ho potuto suonare in orchestra, gruppi da camera, come solista in ambito contemporaneo e classico, con grandi nomi e in contesti molto prestigiosi, sempre conservando un contatto con il mondo del jazz che ho vissuto per alcuni anni come riserva, anche di energia e di immaginazione. Ho conosciuto e condiviso stili, linguaggi e le pratiche più varie con musicisti noti e meno noti, ed è stato per me un periodo di formazione molto ampio, lungo, complesso e ricco. Questa molteplicità di stili ed esperienze musicali (e non solo) mi hanno permesso di chiarire a me stesso il concetto di necessità. Solo successivamente per me è stato chiaro che avrei dovuto dedicare tutte le mie energie solo ed esclusivamente alla mia musica e al mio mondo poetico, rinunciando al resto: credo che ad un certo punto del cammino questo diventa un obbligo per chi sente questa chiamata. Un obbligo da artista, o meglio, da “ricercatore”. Posso dire di aver sintetizzato, in questi ultimi dieci anni in cui mi sono dedicato alla mia musica completamente assecondando totalmente la mia progettualità e la mia ricerca, tutto un percorso di formazione di quasi venticinque anni di studio in cui avevo progettato ma poco realizzato. Mi sono dato il mio tempo, senza fretta. Alla fine il mio bilancio è molto positivo soprattutto perché credo che la musica sia sempre un luogo privilegiato di conoscenza solo a patto di aprirsi e di acquisire strumenti più ampi e non semplicemente musicali. Sarebbe interessante a questo proposito parlare di musicalità in un senso più esteso, posso dire allora che il mio bilancio è musicale e con questo intendo aderente all’esperienza più intima. Naturalmente esistono e sono esistiti momenti di conflitto e grandi delusioni ma di questo è meglio tacere non trattandosi altro che di distopie, incidenti di percorso che ho cercato velocemente di mettermi alle spalle, momenti appunto non musicali.

Un altro tipo di “bilancio” si può tentare circa i prodotti discografici. In aperta crisi di mercato, possono rappresentare per i partecipanti ai concerti una “prosecuzione” dell’esperienza live, e in generale un medium conoscitivo per il fruitore, per l’artista un “segno di presenza”. Una nota musicista statunitense ad esempio ebbe a dirmi (e nemmeno recentemente): “Se ne fanno così tanti che a scambiarceli tra noi musicisti assumono quasi il valore di biglietti da visita”.

Il prodotto discografico, per quanto mi riguarda, non è mai un biglietto da visita ma la conclusione di un percorso di ricerca molto preciso condotto con lucidità e umiltà. Ogni mio disco, parola che ancora usiamo per indicare un oggetto amato, è un mondo fatto di incontri sempre a partire da un’idea.

Credo che la musica, da quando esiste la registrazione, si sia avvicinata alla presenza dell’opera d’arte, dell’oggetto. Per questo non vedo nessun rapporto con il concerto dal vivo se non come documentazione di un momento necessario e insostituibile. Personalmente l’influenza più grande per me è stata, dal punto di vista sia teorico che pratico, quella di Glenn Gould nel cui caso la registrazione ha potuto esser considerata per la prima volta e consapevolmente un testo fedele, si fa per dire, del pensiero musicale. Voglio dire, a me interessa il pensiero musicale; in questo mi sento un ricercatore o non un semplice musicista. Pratico delle idee attraverso i suoni in un linguaggio che può essere anche quello del jazz. Mi infastidisce il corpo dell’interprete, il mio modello è un “ascolto acusmatico” perché preferisco essere percepito attraverso i suoni quando pratico la musica (credo, nonostante tutto in una separatezza separazione dei linguaggi, in una loro necessaria e peculiare concentrazione di senso); il jazz ha sempre voluto essere musica colta, soprattutto per la comunità afro-americana e dunque per me questa necessità di rappresentare un pensiero altro, ma un pensiero e non solo una tecnica mi ha sempre guidato e formato – in fondo Charlie Parker avrebbe voluto studiare con Edgard Varèse…

Il mercato musicale poi è un’altra cosa; io seguo solo un criterio di necessità e credo che, per chi vorrà realmente ascoltare, il supporto discografico sarà sempre la prova dell’esistenza concreta di un pensiero.

Potremmo considerare un’espressione del Tuo eclettismo la Tua originale “scrittura diffusa”?

Per quanto riguarda la mia “scrittura diffusa” come si sarà notato è una cifra caratteristica che mi porta a definire sempre nuovi contesti e nuovi confini. Scrittura diffusa che io ho definito, coniando un termine ad hoc (come nel caso più avanti di Phoemetto): SCRITTURALITA’ che amo scrivere lasciando uno spazio tra le lettere: S C R I T T U R A L I T A’ – sempre al confine tra visivo-scritto etc… E “dello scrivere” specifico che il suono fissato è scritto su un supporto, e dunque è scrittura estesa; per assurdo lo stesso gesto strumentale è come uno scrivere nell’aria, insomma praticare il linguaggio dalla voce-parola al corpo. Naturalmente tutto questo io lo ritrovo sempre in Antonin Artaud e nel suo teatro-parola.

Il mio lavoro Il Teatro Della Percussione E Della Crudeltà è una sintesi di tutto un operato che trova, anche nella Percussione come categoria del musicale, la sua espressione; a questo punto direi: “Scritture Estese” al plurale come forme di una scritturalità intesa come pratica e pensiero attraverso i linguaggi. Per quanto riguarda i “limiti” lascio sempre evidenziare in massima libertà contraddizioni e sconfinamenti della mia ricerca.

Da ciò tenterei un salto, restringendo verso la Tua idea del Jazz.

Dunque, il linguaggio nella sua estensione massima verso la sintesi, e Scritturalità come unità dell’esperienza: questa necessità di sintesi, delle arti, è un portato storico delle avanguardie, e il jazz è pienamente inserito in questo processo. Purtroppo il mercato ha ridotto il jazz e la sua portata culturale a intrattenimento (non sempre per fortuna, e le sacche di resistenza sono ancora molte), e credo che questo sia dovuto anche a problemi più generali di carattere sociale e politico; per esempio un problema irrisolto di comprensione di una cultura afro-americana liberata da stereotipi razziali o altro. Io credo fermamente che il jazz debba essere inserito a pieno titolo in questo processo verso la totalità e la sintesi. Alcuni di questi concetti, in nuce, si trovano mirabilmente espressi in “Punto, linea e superficie” di Kandinsky e siamo nei primi anni Venti del secolo scorso: cento anni esatti da oggi. Voglio dire, c’è un cammino da scrivere e da riprendere in mano. Proprio oggi pensavo: è finita l’arte di relazione (il jazz come relazione, panacea di un turismo cognitivo e musicale così superficiale e mercificato che ha dominato la scena) da questo momento – da oggi – si dovrà riprendere in mano il discorso relativo alla Forma e ai contenuti. Praticare una “scrittura estesa” per quanto mi riguarda vuole dire anche questo.

Una o anzi più testimonianze della partecipazione ad avventure concertistiche e discografiche con personalità iconiche dell’avanguardia, e collaborazioni con agguerriti confratelli.

Il mio incontro fondamentale è stato quello con Giancarlo Schiaffini, con cui ho innestato tutti i miei molteplici progetti discografici. Giancarlo ha rappresentato per me il ponte tra il mondo della musica classica contemporanea e il mio jazz, trasversale e d’avanguardia se così vogliamo dire; con lui ho sempre condiviso questo sforzo mai nostalgico, ma di ricostruzione di un discorso e questo credo che lui l’abbia sempre capito, con una grande pazienza per i miei: “perché?”. Grazie a lui ho potuto collaborare con Andrea Centazzo, con cui condivido un sentimento di apertura e di avventura oltre il musicale, Alvin Curran che mi ha trasmesso una disciplina nella libertà e tanti altri.

Diverso il discorso per quanto riguarda Fritz Hauser che per me è un maestro della percussione e dell’improvvisazione, nella Percussione, intesa anche come attitudine e pensiero di vita. L’ho conosciuto quando mi decisi a studiare “One4” di John Cage, a lui dedicato per il mio diploma in conservatorio. Lo contattai e da lì nacque un rapporto fondamentale. Suonare con lui per me è sempre un piacere profondissimo e intimo; un incontro e una disponibilità unica, la sua, unita ad una intelligenza musicale rara.

Discorso ancora a parte merita il mio incontro con Billy Lester, che per me rappresenta il mio contatto più profondo con il linguaggio del jazz, con la lingua del jazz. Con lui posso dire di suonare dentro il linguaggio e questo grazie ai miei primissimi compagni di viaggio, Nicola Stranieri e Marcello Testa, che mi hanno accompagnato nei miei primissimi progetti a mio nome e hanno sopportato le mie stranezze. Sono debitore a Steve Piccolo, con cui ho condiviso idee non solo musicali, progetti più ampi come già ho detto e grazie a lui ho potuto incontrare e confrontarmi con un musicista straordinario come Elliott Sharp. E poi, più recentemente, Roger Turner con cui ho creato un rapporto speciale fatto di dialoghi musicali istantanei e liberissimi grazie anche all’occhio di Roberto Masotti che ha documentato, in un processo tipico e specifico di creazione che è solo suo, il nostro dialogare oltre il musicale e verso un’esperienza improvvisativa liberissima e liberata. E naturalmente mia moglie, Francesca Gemmo, compositrice e pianista con cui condivido tutto; vita e musica e di cui sarebbe difficile sintetizzare in poche parole il senso profondo di questo nostro vivere insieme il tempo. Di tutti gli altri e di chi ho dimenticato non posso che dire: grazie! Anche per gli errori, gli sbagli, gli incidenti di percorso e i fraintendimenti. E sono molti.

Un racconto della Percussione – dal punto di vista della marimba.

Grazie per questa domanda. Potrei rispondere dicendo: la marimba, questa sconosciuta! Al femminile, anche se si tratta di uno strumento ambivalente. Ho maturato negli anni una convinzione che mi ha portato a vedere la marimba come uno strumento non a percussione, ma uno strumento specifico che lo studioso guatemalteco Lester Homero Godinez Orantes definisce nella categoria “agrupación de tablillas en sucesión”. Questo significa comprendere la percussione, come dici giustamente, “dal punto di vista della marimba” o meglio degli strumenti a tastiera: vibrafono, xilofono, balafon… Il mio incontro fondamentale è stato con Leigh Howard Stevens, il padre della marimba classica, con lui ho studiato il metodo del movimento (m.o.m.) e la sua tecnica. Quando devo studiare realmente e tradurre la mia musica è da lì che parto. Questo mi ha permesso di utilizzare una tecnica unica applicata a varie prese: “Burton grip” in primis, che utilizzo regolarmente sul vibrafono. Ma io in ogni mio progetto discografico applico una tecnica specifica finalizzata al suono e al linguaggio. Il mio strumento di riferimento è la marimba: il mio lavoro in solo Early Alchemy per Dodicilune voleva proprio testimoniare questo. Il vibrafono è il mio contatto con il linguaggio del jazz, e poi il balafon che mi ha permesso di condividere, con il grande Giancarlo Schiaffini, il linguaggio trasversale di Thelonious Monk in duo e quartetto (e che uscirà tra qualche mese sempre per Dodicilune).

La Percussione è invece il contesto; io nasco percussionista ma ho potuto ritrovare il mio linguaggio solo grazie a marimba e vibrafono. La marimba è il luogo dove il mio pensiero musicale nasce e si struttura, soprattutto nella quotidiana frequentazione con la musica di Bach, mentre il vibrafono è la sua traduzione ancora nella langue maternelle del jazz.

La fisica ci parla di: Flussi Laminari e Flussi Turbolenti. Partendo dalle “lamine” del Tuo strumento, consideriamo il carattere “laminare” (o “mainstream”) 

della Tua personalità in jazz e quello “turbolento” della Tua espressione avant-garde

 o free-style.

 

Bella domanda anche questa: partiamo dai “Flussi Laminari” e dal rapporto con il linguaggio del jazz. In questo stato riduco l’azione a due mazzuole, secondo la tradizione, e mi concentro sulla voce dello strumento e sulla frase. Con Billy Lester ho condiviso questo dialogo in due album pubblicati da Dodicilune. Mi piace nascondermi dentro il linguaggio, ancora la langue maternelle del jazz, e dialogare idealmente con la Storia attraverso i grandi maestri che mi hanno formato e che ho ascoltato più volte e studiato con attenzione e amore: Milt Jackson, Bobby Hutcherson, Red Norvo e Walt Dickerson, il ponte tra tradizione e avanguardia. E ovviamente Lionel Hampton, ma questo è un discorso a parte. Entrare in un linguaggio, parlare quella lingua, con l’umiltà necessaria di abbandonare il proprio Ego; rimodellare la propria individualità all’interno di quel suono interiorizzato. Questo è il mio flusso laminare.

Per quanto riguarda i “Flussi Turbolenti” non posso che partire da una concezione più verticale, accordale, per campi armonici a quattro mazzuole; in questo campo di energia sta il mio lavoro con Alvin Curran, Giancarlo Schiaffini, Fritz Hauser e altri a cavallo tra lingua e ricerca; oltre il vibrafono (e i titoli sono molti, sempre ringrazio Dodicilune per l’intelligenza e l’acutezza di Maurizio Bizzochetti e Gabriele Rampino che esercitano da sempre la comprensione attraverso l’ascolto e oltre ad essere acuti produttori discografici sono ottimi musicisti) per approdare al vibrafono preparato, nel doppio trio con Roger Turner dove la ricerca timbrica, oltre il temperamento dello strumento, è finalizzata alla perdita, alla caduta di ogni confine verso un ascolto totale e possibile.

Come giudichi, a tutt’oggi e tutto incluso il valore dei Social e delle piattaforme: a) nella promozione culturale in generale, b) nell’auto-promozione in particolare.

I social e più in generale la rete sono stati – parlo al passato perché credo che cambieranno molte cose in un futuro a noi molto vicino – uno strumento molto efficace di distribuzione culturale, forse incentivando una eccessiva produzione, ma hanno creato una condizione orizzontale di dialogo e di confronto democratico. E questo è molto positivo.

Credo comunque che la cultura, l’arte e la musica (parole che uso solo per chiarezza) necessitino di una dimensione più intima, non dico elitaria ma selettiva, all’interno di un tempo altro, che non sia quello del consumo, per essere costruita, coltivata: il tempo lento, naturale, dell’agricoltura. Oggi abbiamo sotto gli occhi tutti i sintomi di questa patologia, una malattia sociale e spirituale. I social dovrebbero riscoprire il tempo lento della necessità e del pensiero; ma questa è una pratica che va esercitata e riscoperta e la musica, come disciplina, potrà aiutare moltissimo a ritrovare un tempo interiore e necessario. Per quanto riguarda l’auto-promozione, è fondamentale utilizzare i social e la rete avendo già costruito prima una propria legittimità. Credo che siano in generale, tutti i social e la rete, uno strumento di promozione ma non di costruzione reale di legittimità, voglio dire: la rete espande ma non permette di consolidare, ma questa è un’opinione personale. Per quanto mi riguarda sono molto riconoscente alla rete; la mia musica, le mie parole forse non esisterebbero oggi, ed anche il nostro incontro, la nostra conversazione è possibile grazie a questa nuova tecnologia o piattaforma che, ricordiamolo, dovrebbe essere al nostro servizio e non viceversa.

Una considerazione più specifica meriterebbe il Tuo website personale, fitto di opzioni e che riccamente rappresenta il reticolo dei tuoi interessi e delle tue esperienze.

Il mio sito è in verità un archivio dove poter raccogliere tutta la documentazione, i lavori, gli scritti, i progetti e le idee all’interno di un processo di costruzione complessivo. La mia attività musicale è inserita chiaramente in questo contesto più ampio che ha una sua gerarchia mai esibita; dall’alto verso il basso si parte da alcuni spunti biografici con l’improvvisazione come attitudine e il jazz come lingua (di cui abbiamo già diffusamente parlato) per passare alla poesia, alla saggistica, alla ricerca artistico-sonora che ha in Erratum il suo luogo dedicato, alla pittura (per esempio faccio notare che ogni mio progetto discografico porta, spesso, un mio lavoro grafico-pittorico come indizio) e dalla discografia molto ricca, intrecciata con collaborazioni differenti, si arriva alla mia attività compositiva che grazie ad Edmondo Filippini con Da Vinci Publishing oggi ha trovato una sua casa. Per quanto mi riguarda la scrittura ha un peso determinante nel mio processo creativo, intendo la scrittura musicale in tutti i suoi differenti aspetti: scrivere significa prendere consapevolezza e comprendere. Non vedo differenza tra la pratica dell’improvvisazione e la composizione; tutte e due sono momenti differenti della scrittura, in gesti e in segni. Il suono si manifesta solamente quando si è in possesso degli strumenti simbolici necessari. Il mio sito è un modo di praticare la scrittura in un senso più esteso, per questo motivo mi aiutano dei termini che ho inventato a proposito: “Phoemetto” (un poemetto sonoro, da phoné per esempio); “scritturale”, dove la scrittura è segno quasi esistenziale… tutto questo poi ritorna nella mia musica e il mio archivio, che è sempre immaginario e possibile di infinite aperture, si riversa nella mia musica. Alla fine inviterei tutti a comporre il puzzle del mio sito ché alle volte, devo confidarti, rischio di perdermi e di smarrire la mappa. Voglio dire, raccolgo la sfida della rete: oggi i siti non vengono più consultati come una volta perché sono loro a consultare noi. Posso dire di avere bisogno anche del mio sito, per ritrovare ogni giorno il mio asse di equilibrio e accordare la mia lingua.

Siamo edotti di una annunciata, nuova produzione per la quotata etichetta elvetica HutHat: in che direzioni ci si muove? 

La produzione con Hat Hut è merito di Fritz Hauser e dell’interesse di Werner X. Uehlinger per la nostra musica; insieme a Francesca Gemmo al pianoforte e Martina Brodbeck al violoncello per un progetto “svizzero” che rappresenta uno sviluppo del mio precedente e fortunato duo, Structuring The Silence, pubblicato da Dodicilune. Ho così pensato di estendere questo pensiero compositivo (leliner notes del cd saranno scritte dal filosofo, pianista e musicologo Andy Hamilton) ad un quartetto con violoncello e pianoforte. Di tutto questo lavoro esiste una partitura temporale che ci ha permesso di improvvisare all’interno di alcuni vincoli di tempo (mi piace questa idea di sospendere il gesto improvvisativo e di appenderlo a una griglia, a una struttura formale data) in cui ho cercato di sviluppare il lavoro dell’ultimo Cage, quello dei “Number Pieces”, e di estenderlo all’improvvisazione.

Altro per ora non posso dire. L’uscita è prevista per il mese di agosto 2020, emergenza permettendo.

“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine” (Theodor W. Adorno).

Citare Adorno è sempre interessante, nonostante la reazione degli ultimi anni a favore di un ritorno all’ordine “morale” dell’arte espresso nel rifiuto delle avanguardie e del Novecento. Io torno spesso e volentieri ad un testo fondamentale come “Filosofia della musica moderna” (recentemente ho letto con grande piacere il carteggio tra Adorno e Schoenberg – i due non si amavano proprio, anzi). Partendo da Adorno penso che sia stato possibile fare musica e arte anche dopo Auschwitz; rispetto all’arte il caos a cui si riferisce presumibilmente il filosofo francofortese è quello fecondo della creazione, all’interno di una dialettica negativa, che deve, dal mio punto di vista, avere una natura sperimentale, sempre. L’ordine è determinato dai nostri schemi che sono anche i nostri limiti ma posso dire, a questo proposto, che il caos a cui io aspiro è quello di un ordine superiore: la musica è questo dialogo, reale, con l’Altro che per me è il vero referente. Se questo caos è l’Altro allora si supera un ordine mondano, normativo, per procedere oltre. Posso dire senza nascondermi che il mio amore per Bach, che ogni giorno suono sulla mia marimba e quando posso ascolto, è anche conseguenza di una mia vicinanza con l’Infinito e questo è un vero paradosso.

Quanto vale il “silenzio” in musica?

Se facciamo riferimento alla mia esperienza con Fritz Hauser, questa nasce da una comunione profonda: il mio rapporto, prima indiretto e poi di diretta collaborazione, nasce dal mio studio profondo della musica di John Cage. Devo dire che Cage è sempre stato trattato con grande superficialità: in verità la sua musica è profondissima e necessaria, e io lo paragono a Bach per importanza. Con Fritz ci siamo intesi subito, e questo grazie al medium che è stato Cage. La centralità, nella musica di Cage, degli strumenti a percussione non è timbrica o ritmica ma puramente sonora; l’ascolto è il centro attorno a cui costruire e definire la forma. Dopo Cage è l’atto dell’ascolto a determinare la forma. Quando suono con Fritz questo è molto chiaro, plastico vorrei dire. Il nostro ascolto è sintonizzato non su quello che accade, il contenuto, ma su quello che potrebbe accadere o che accade in potenza, la forma. Questa forma è il silenzio. In Structuring The Silence ho cercato di modellare concretamente, attorno a una struttura temporale data, questa attitudine formale all’ascolto trovando un’intesa perfetta di pura sospensione sonora. Questo è espresso perfettamente nel pianissimo, ai limiti dell’udibile senza mai perdere la tensione, il senso e la direzione.

Per quanto riguarda il Silenzio mi riferisco alla dimensione ontologica dell’ascolto e dell’apertura verso il mondo.

Il silenzio non esiste, esiste un mondo di suoni che sono il mio mondo. Quando ascolto, nell’atto dell’ascolto io determino la forma. Il senso è: porre attenzione. La volontà di ascoltare corrisponde alla volontà di riconoscere realtà e dignità al più piccolo suono.

Le Tue idee sulla “ecologia dell’ascolto”.

Nel riferimento all’ecologia dell’ascolto non ometterei nulla: tengo particolarmente al concetto di “ecosistema in musica”, un habitat sonoro in cui tutto è collegato. Ho creato a questo proposito una piccola pagina di riflessione sul mio sito legata al progetto con Fritz Hauser a cui tengo particolarmente dove ho pubblicato un breve scritto di presentazione di un nostro workshop proprio l’anno scorso: PostPercussionMusic | Per un ascolto ecologico.

Se intendi riferirti ad un “pubblico mal orientato o dis-educato” certamente, per quanto concerne me e la “mia” musica, non credo esista – e il pubblico non sarebbe nemmeno il problema principale, che è invece il sistema, con l’istruzione che manca, la politica assente… il pubblico è asintomatico, purtroppo.

Questo è il problema, e il virus della sordità e dell’indifferenza circola. La musica è pensiero ma, purtroppo, per molti è solo un orpello (se va bene); per non parlare del turismo culturale per anni costretto al consenso e alla passività. Ma sarebbe troppo lungo e io limiterei allo hortus conclusus del mio lavoro: voltairianamente.

La Tua Milano in arte e in musica; nel passato, in tempi recenti e (ahinoi) in questi nuovi giorni di grandi criticità.

Milano è la mia città in tutti i sensi. È la città di mia madre, la città dove vivo con mia moglie Francesca e dove condivido gli spazi e i luoghi con i miei amati gatti. È la città dove ho studiato. È per me il luogo fondamentale del pensiero e della vita. A Milano ho potuto formarmi con musicisti straordinari e scontrarmi con forza con musicisti e artisti anche meno straordinari. A Milano ho trovato il mio equilibrio instabile, il mio asse di equilibrio (come il mio primo quartetto a mio nome: Axis Quartet). È una città dura, veloce, che dimentica in fretta e mastica per poi sputare, rinascere e ripartire. Ma questa città mi ha accolto e mi ha permesso, in questi anni, di coltivare questa mia molteplicità, anche dispersiva, questa mia estrosa felicità. A Milano ho ideato uno spazio trasversale, quasi tre anni fa, con un caro amico che è un artista straordinario e di sottile intelligenza creativa: Steve Piccolo, lo spazio si chiama Erratum (erratum.it) dove abbiamo sperimentato forme ed esperienze trasversali di arte sonora: about sound, visual, text. Questa esperienza è stata possibile solo a Milano per la ricchezza e vivacità del tessuto connettivo cittadino, per lo slancio e la generosità degli eventi, prima di questa immane tragedia, che ora ci vede tutti silenziati, muti, assorti ma pieni di vita rispetto ad un mondo malato.

Apollo o Dioniso?

Se mi hai già collocato nel versante “apollineo” (come immagino) hai ragione, anche se preferisco rappresentarmi nella dialettica schumanniana come Eusebio e Florestano in eterna lotta, e nietzschianamente sono certamente più Apollineo anche se, in verità, nell’atto improvvisativo dimentico ragione e ragioni, in un impulso “quasi” dionisiaco.

Una risposta a piacere…

Preferisco un aforisma : “Il vero cuore riflette e l’autentica ragione ha sentimenti” (Albert Schweitzer).

… ne siamo appagati.