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Monkish

9° POSTO

Prodotto dall’etichetta pugliese Dodicilune, distribuito in Italia e all’estero da IRD e nei migliori store on line da Believe Digital, martedì 18 gennaio esce “Monkish (’round about Thelonious)” di Armaroli - Schiaffini 4tet. 

Giancarlo Schiaffini (trombone) e Sergio Armaroli (balafon cromatico e vibrafono) aggiungono un nuovo capitolo alla loro prolifica collaborazione tornando sulla musica di Thelonious Monk. Ma se nel precedente “Deconstructing Monk in Africa” (Dodicilune 2021),  proponevano in duo una suite di quasi un'ora nella quale l’improvvisazione faceva da raccordo tra il pianista e compositore statunitense, l’Africa e la musica contemporanea europea, in questo disco i due musicisti e improvvisatori si esibiscono, affiancati da Giovanni Maier al contrabbasso e dallo sloveno Urban Kušar alla batteria, in dodici tra le più celebri composizioni monkiane (Friday The 13th, Bemsha Swing, Pannonica, Blue Monk, Misterioso, Crepuscule With Nellie, Blues Five Spot, Evidence, Raise Four, Oska T., Ba-lue Bolivar Ba-lues-are, Blue Hawk).

«Il programma è ampio ma colpisce tuttavia che, tra le composizioni scelte, ben tre (delle cinque che lo componevano) provengano da Brilliant Corners, lo storico album del 1957 nel quale il pianista illuminava “Pannonica” con gli sfavillanti suoni della celesta», sottolinea il filosofo e critico musicale Neri Pollastri nelle note di copertina. «Una scelta emblematica, perché la musica che viene qui sviluppata svela all’ascolto un continuo susseguirsi di “angoli brillanti”, evidenziati soprattutto da Armaroli ora con i suoni scintillanti del vibrafono, ora con quelli appena meno fulgidi, ma sempre luminosi del balafon cromatico - raro strumento burkinabè che qui funge quasi da alter ego del pianoforte - ai quali il contrabbasso di Maier fa costantemente da contrappunto, donando loro ancor più fulgore. Questo singolare gioco dialettico di chiari e scuri - che ha momenti esemplari, per esempio in “Blue Monk”, “Crepuscule with Nellie” e “Oska” - costituisce la cifra della lettura di Monk offerta dal quartetto, per colore del suono e struttura che fa da bussola all’interazione delle voci», prosegue. «In esso s’inserisce, commentando con il suo caratteristico stile parlante, il trombone di Schiaffini, muovendosi con libertà e grandissima misura quasi sempre attorno ai temi, che lascia invece agli altri illustrare. Oltre all’inventiva e all’appropriatezza degli interventi, colpisce come il trombone riesca a far timbricamente da tramite tra vibrafono/balafon e contrabbasso. Assai singolare il ruolo svolto da Kusar, anch’egli sovente coinvolto con finalità di commento - sia ritmico, sia timbrico - alla struttura costruita da Armaroli e Maier, ma che occasionalmente prende il posto del primo nel far “brillare angoli”, come accade per esempio nell’avvio di “Misterioso”, non a caso ritmicissima e nel prosieguo della quale è per una volta il trombone a esporre il tema. Non mancano comunque situazioni del tutto singolari, come in “Ba lue Bolivar Ba lues are” - con un lungo e suggestivo duetto tra trombone e contrabbasso, a cui fa seguito un secondo, più breve ma non meno intrigante, tra balafon e batteria - o in “Pannonica” - l’incipit della quale è un corale addensarsi di voci», continua Pollastri. «Un Monk in parte tradizionalmente rispettato - i temi a far da guida alle improvvisazioni, libere ma non caotiche - e in parte, giustamente, tradito e riletto alla luce della contemporaneità - il contrabbasso che disegna linee melodiche, l’unico fiato che commenta e divaga, la batteria che pennella timbricamente. Un Monk dai suoni splendidi, che rinnova ancora una volta il proprio fascino, così come rinnovano il loro i suoi eccellenti interpreti».

PRESSKIT

Press review

"... interpretato da due leader (rispettivamente vibrafono e trombone) e la ritmica (Maier e Kusar) con un approccio soft, quasi mainstream, dove però il lavoro collettivo si concede qualche impennata free".

Guido Michelone

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incline ad atmosfere melmose, scure, destabilizzanti, fascinose quanto fin troppo univoche, ciò che in fondo riguarda, sempre su Dodicilune, però saltando decisamente in altro contesto e con tutt’altre valenze, anche Monkish, primo di tre cd dedicati ad altrettanti pianisti di cui ci occupiamo ora (qui, ovviamente, Thelonious Monk), nello specifico a firma dell’Armaroli-Schiaffini 4tet, solo un cordofono (il contrabbasso di Giovanni Maier) e per il resto vibrafono, trombone (i due leader) e batteria. Disco bellissimo, molto gratificante, vuoi per il peso specifico dei temi, vuoi per come i quattro sanno cavalcare queste autentiche icone del songbook jazzistico. Salutare, persino terapeutico.

ARMAROLI – SCHIAFFINI QUARTET, Bemsha Swing, da “Monkish (Round About Thelonious)” – Dodicilune Dischi Ed514

ARMAROLI – SCHIAFFINI QUARTET, Friday The 13th, da “Monkish (Round About Thelonious)” – Dodicilune Dischi Ed514

Hace algunos días, Tomajazz compartió con los amantes del jazz que frecuentan estas páginas alguno de los temas de este álbum, firmado por el cuarteto que lideran a la par Sergio Armaroli y Giancarlo Schiaffini, así que quienes nos siguen con asiduidad ya tienen una idea bastante precisa de la música que hace esta banda italiana.

Por otro lado, no es la primera vez que este cuarteto muestra su aprecio por la música del pianista y compositor norteamericano, pues el año pasado sin ir más lejos publicaron Deconstructing Monk in Africa (Dodicilune, 2021). Curiosamente, en el cuarteto no hay piano, lo cual sugiere ya de entrada que Armaroli y Schiaffini toman las composiciones de Thelonious Monk como punto de partida creativo, permitiéndose un amplio grado de libertad a la hora de improvisar sobre los temas originales. Una particularidad: en este caso Armaroli es también el diseñador y artista que firma la portada, una pieza de arte (en la línea de Miró) que encaja a la perfección con el contenido musical del disco.

Como es fácil deducir por el título, se trata de un tributo a esa piedra miliar, esa referencia ineludible del jazz del siglo XX que es Thelonious Monk, por lo que los doce temas que lo integran llevan su firma. Eso sí, todos pasan por el tamiz musical de este grupo que demuestra tanto talento, como humildad, pues las fotos que acompañan al CD revelan a las claras que la imagen de los músicos está en las antípodas de cualquier artificio pretencioso. Difícilmente se podría encontrar un look menos cool. Pero, ¡cuidado!, no saquemos conclusiones apresuradas, porque tan pronto escuchemos las primeras piezas nos daremos cuenta de que todos ellos demuestran que su sencillo aspecto va acompañado de una gran competencia instrumental.

El cuarteto abre la selección con “Friday the 13th”, grabado por primera vez por su compositor en 1953, un viernes 13 de noviembre. El tema tiene su aquel, ya que además de dejar constancia de la fecha de grabación, se ganó el nombre porque ese día el saxofonista Sonny Rollins llegó tarde al estudio debido a un accidente de tráfico y el trompetista Ray Copeland cogió la gripe y hubo de ser sustituido por el francés Julius Watkins (quien hizo un trabajo excelente, por cierto). Eso para el archivo de los supersticiosos.

No nos consta que nuestro cuarteto haya tenido ningún contratiempo, pero, a juzgar por el resultado, todo fue sobre ruedas. Armaroli suple el teclado de Monk con su vibráfono, dándole a la composición un aire etéreo, que sirve de contrapunto a la fuerza del trombón de Schiaffini.

La siguiente composición es “Bemsha Swing” otro tema bien conocido por cualquier aficionado, sea o no fan de Monk. De nuevo, el vibráfono introduce un elemento un poco extravagante, pero el resultado es original y, como hemos dicho antes, creativo. Pasamos luego a “Pannonica”, título que hace referencia a la Baronesa del Bebop, Pannonica de Koenigswarter, mecenas y gran amiga de músicos de jazz, en especial de Charlie Parker y Thelonious Monk. Por cierto, que este último pasó sus momentos finales acompañado de la baronesa, cuando, a los sesenta y cuatro años, su delicada salud hizo crisis. “Nica”, como era popularmente conocida entre amigos y tutelados, ayudó activamente a los músicos de jazz de Nueva York durante las décadas de los cincuenta y sesenta (y Dios sabe que muchos lo necesitaban), por lo que era muy apreciada y por lo que Monk le dedicó este tema que incluyó en el álbum de 1959, Thelonious Alone in San Francisco. En la versión original, Monk interpreta el tema al piano en solitario, si bien el cuarteto que nos ocupa une fuerzas para elaborar un tema introspectivo, denso, muy diferente del original, pero al mismo tiempo poniendo en valor la labor creativa de los músicos del cuarteto.

Siguen, “Blue Monk”, “Misterioso” (Misterioso, 1958), “Crepuscule With Nellie” (Monk’s Music, 1957), “Ba-Lue Bolivar Ba-lues-Are” (Brilliant Corners, 1957), “Blues Five Spot” (Misterioso, 1958)… Todos ellos temas de sobra conocidos, que nos ofrecen la posibilidad de disfrutarlos bajo una nueva e innovadora perspectiva y que no defraudarán ni a los más acérrimos seguidores del pianista ni a los aficionados al bebop en general. Versionear a una figura icónica como Monk es un reto de dimensiones considerables, pero estos cuatro músicos superan de sobra el desafío e incluso van más allá, reafirmando su propia creatividad. Muy recomendable.

By © Juan F. Trillo, 2022

Nel precedente "Deconstructing Monk in Africa" Armaroli e Schiaffini recuperavano alcuni temi monkiani all'interno di un flusso sonoro solcato da arie etniche di matrice africana, messe in circolo per mezzo di nastri preregistrati. Si trattava di un atto di riappropriazione dei brani del grande musicista afroamericano di secondo livello, mediato intellettualmente, distante dalla semplice riproposta, cioè, dall'esito, comunque, sicuramente confortante. In questo nuovo lavoro opera un quartetto, non più un duo. Armaroli e Schiaffini hanno arruolato, infatti, Giovanni Maier e Urban Kušar. I quattro protagonisti dell'incisione possiedono un linguaggio e un atteggiamento comuni in rapporto con la musica in generale. Sono personalità che intendono il jazz come un terreno su cui sperimentare. Sono personaggi aperti alla ricerca di nuove commistioni e ad una rilettura della tradizione priva di lacci o di remore, condotta in maniera disinibita e creativa e, per questa ragione, in fin dei conti, maggiormente rispettosa.

Va precisato, prima di tutto, che il confronto con il repertorio del grande "Sphere" è diretto, senza sovrastrutture di sorta. In questo cd trapela, poi, nel quartetto, un'analoga passione per il blues d'autore, rivisitato quanto si vuole, rivoltato come un calzino, magari, che serpeggia o prende decisamente campo in ogni anfratto delle undici tracce. I pezzi, tutti per l'appunto blues, sono interpretati piuttosto fedelmente e sono esposti, di norma, dal vibrafono o dal balafon, mentre la base ritmica alterna sequenze in cui swinga con gusto e concretezza ad altre in cui suggerisce scenari più o meno astratti. Giancarlo Schiaffini, da parte sua, assume il ruolo di battitore libero. Il trombonista spara bordate ruvide, oppure punteggia, commenta il discorso intavolato dai partners, o apre e chiude succose parentesi.

Giovanni Maier raddoppia a volte la voce narrante il motivo, o si esibisce in un accompagnamento tetragono, di grande solidità. Negli assoli è praticamente sontuoso. Come si suol dire in questi casi, non mette mai una nota fuori posto, né qualcosa in eccesso, né in difetto.

Urban Kušar, percussionista sloveno di scuola Zlatko Kau?i?, abituato a far suonare, quindi, qualsiasi tipo di oggetto, usa la batteria in maniera quasi canonica, assicurando una spinta, una propulsione ritmica bilanciata, rivelando la capacità di rimarcare il tempo regolarmente o di uscirne fuori, a sua discrezione, seguendo un percorso fruttuosamente discordante.

Sergio Armaroli, soprattutto con il balafon, assicura una continuità timbrica con il precedente disco, perché la tesi di fondo è in un certo senso analoga, collegare, cioè, il mondo monkiano alle sue origini africane.

"Monkish, round About Thelonious" è un album che si aggiunge ai tanti tributi, alle frequenti riletture realizzate in questi anni del songbook del compositore di Rocky Mount. In quest'opera, infine, il valore individuale e collettivo dei componenti della band e la consistenza delle loro idee garantiscono la qualità di una proposta modernissima eppure aggrappata alla tradizione come poche.

Scritto da Gianni Montano   

Mercoledì 27 Aprile 2022 00:00

L’amitié entre Sergio Armaroli et Giancarlo Schiaffini est l’une des plus fructueuses de la scène italienne. Voici de nombreuses années que le vibraphoniste, que nous avons entendu récemment avec Elliott Sharp, et le célèbre tromboniste de l’Instabile Orchestra, l’une des plus brillantes coulisses d’Europe, nous ravissent avec des projets autour des musiciens de la seconde moitié du XXe siècle, d’Alvin Curran à Luc Ferrari en passant par John Cage, ce qui ne les empêche pas de s’emparer du jazz contemporain, comme en témoigne Trigonos. Fidèles au label Dodicilune, Armaroli et Schiaffini ont, l’an passé, questionné la figure de Thelonious Monk dans un remarqué Deconstructing Monk in Africa, dans une démarche amoureuse et savante ; ils ne pouvaient sans doute pas en rester là, tant la figure de Monk est importante dans leur musique : Schiaffini avait déjà enregistré un About Monk en 1992 dans son Giancarlo Schiaffini Band, où l’on retrouvait notamment Gianluigi Trovesi.

Avec Monkish (round about Thelonious), c’est, croit-on, une forme plus classique que nous proposent les deux Transalpins. En quartet avec une paire rythmique fabuleuse composée de l’indéboulonnable contrebassiste Giovanni Maier, proche de Zlatko Kaučic (Disorder at The Border) et habitué des formations de Schiaffini, et du batteur slovène Urban Kušar, largement passé sous les radars jusqu’ici. Il suffira de laisser avidement courir « Misterioso » sur la platine pour être immédiatement convaincu par son groove impeccable et la capacité du contrebassiste de l’Instabile à le pousser dans ses retranchements à force de coups d’archet. Sur cette route dégagée, droite et rapide, Schiaffini et Armaroli peuvent en toute décontraction continuer un travail de déconstruction par d’autres chemins que ceux du duo. Le vibraphoniste se prend d’abord au jeu de la puissante rythmique, avant de laisser le tromboniste partir vers d’autres chemins. Il en va de même avec le doux « Evidence » qu’Armaroli transforme en une œuvre cubiste, où Maier et Schiaffini s’en donnent à cœur joie, retrouvant de vieilles complicités.

C’est un vrai discours amoureux sur Monk que nous propose Monkish, qui ne sombre jamais dans la révérence ou le sage travail du copiste : l’œuvre de Monk est malmenée, bousculée, ce qui la rend encore plus monkienne dans sa forme comme dans son esprit. Le malin « Raise Four », par exemple, en est une belle déclinaison, lorsque le vibraphone s’empare du thème pour le jeter dans les braises de la rythmique ; dans ce morceau, Giancarlo Schiaffini s’efface dans un premier temps avant de jouer les accélérateurs à grand renfort de coulisse. On prend beaucoup de plaisir à l’écoute de ce disque, à parité avec les musiciens, qui savourent les thèmes avec espièglerie. Il suffira de quelques pizzicati de la contrebasse et d’un efficace pas de deux de Schiaffini et Armaroli sur « Bemsha Swing » pour adopter sans réserve ce disque, fruit à la fois d’un travail opiniâtre et d’une efficacité sans détour.

par Franpi Barriaux // Publié le 24 juillet 2022


Cogliamo una sorta di bi-partizione nell’approccio revisionista a Thelonious Monk da parte di due figure cooperanti in arte, distinte per profilo ma convergenti in spirito; tra svariate espressioni collaborative del trombonista romano Giancarlo Schiaffini (testimonial e portabandiera della nostra scena free dalla prima e più storica incarnazione) ed il vibrafonista milanese Sergio Armaroli (di fatto polistrumentista ma più ancora artista ed esteta poliedrico e multimediale) vi è un recente primo capitolo discografico (Deconstructing Monk in Africa, del 2021), ripartito tra una congerie di devices percussivi, per lo più etnici, evocanti lo spirito ‘afro’ del jazzman, ed il trombone solista, cui s’affidava la profilazione metropolitana e di ricerca del medesimo, con dichiarati riferimenti anche alla musica post-accademica europea.

Ad altri piani di de-costruzione i due puntano espandendo la formazione a quartetto, nella cui line-up non meraviglia la titolata presenza del contrabbassista friulano Giovanni Maier (già apprezzato per decadi di esperienze avant-garde) e, su suggerimento di quest’ultimo, l’arruolamento del giovane batterista sloveno Urban Kušar, particolarmente attento all’implementazione timbrica del proprio set strumentale.

S’apprezza dunque un approccio ulteriore, dispensato nella selezione pescante fino alla fine degli anni ’50, attingendo allo storico album Brilliant Corners come ad altri capisaldi quali Pannonica o Misterioso, comunque discostandosi alla precedente e complementare soluzione in forma di suite, dalla fisionomia libera e in parte “naturalistica”, orientata sulle composizioni blues, qui investendosi in un più ampio ventaglio repertoriale.

La drammaturgia riesce pertanto variamente configurata, cosicché nell’avvio la tempra marciante di Friday the 13th viene resa entro uno spirito apparentemente nonchalant, con un maggior compattamento d’insieme nella successiva Bemsha Swing; lo spirito distaccato e le originali inflessioni scultoree della dedicataria Pannonica appaiono de-costruite in un carattere fluido ed intensamente onirico.

Una peculiare incarnazione dello spirito gospel di Blue Monk è intessuta dalle lamine vibranti, e le movenze d’insieme suonano pervase da un intimo spirito ‘southern’; assai più swingante e spedita la riproposta di Misterioso, abitato da un importante interplay, transitante nelle figurazioni ben più astratte della seconda parte.

Allure capricciosa e spirito della sorpresa pervadono passaggi quali Evidence e Oska T, toccando l’epilogo nella disarticolata versione di Blue Hawk, tendente ad evidenziare fermenti free preconizzati con modalità proprie dall’irripetibile caposcuola.

Insomma, alquanto differenziato il ventaglio formale, su cui variamente s’investono i combinati istinti rappresentativi, che alla drammatizzazione più comunemente esperita sembrano preferire un legante fluido ed un certo grado di spettralità; ben distinte le traiettorie dei due strumenti di natura solistica, ruolo a tratti assunto anche dalle corde basse di Giovanni Maier, di scultoree nervature, non dovendosi ignorare anche l’impulso ritmico sostenuto in più parti da vibrafono e balafon, sostenuti e a tratti incalzati dal drumming tecnicamente scabro, ma pronto e saettante di Urban Kušar il tutto in una transitiva dimensione d’ascolto.

E, pur nel polimorfo stile d’insieme e nell’opportuno avvicendamento delle parti, diremmo che la neo-incarnazione monkiana tocchi eminentemente al veterano Giancarlo Schiaffini, non nuovo alla pratica e revisione di Monk, come abbiamo raccolto dalle sue dirette parole: “Risale al 1992 il mio primo approccio a Monk con un gruppo a nove elementi per un disco della Pentaflowers (“About Monk”). Qui ho soprattutto lavorato sugli arrangiamenti e ancor di più sui ri-arrangiamenti, cercando di meglio evidenziare le componenti più interessanti o più significative, o che forse erano tali per me. Un lavoro di smontaggio e ri-montaggio dei brani per cui, nel lavorare a quattro, ho poi condiviso la responsabilità con tutti. Ciò che nell’essenza ho tentato di fare è proporre una mia versione di Monk senza tradirlo”.

Si direbbe pertanto che il contitolare Sergio Armaroli oltre che improntare timbricamente il soundscape funga da bussola ispirativa come pure da controllore armonico e, non rinunciando alle naturali propensioni free-style e sottilmente sovversive, s’adopri a conferire al complessivo disegno una concezione labirintica. “Condivido l’impostazione di cui parli: concezione labirintica e intenzione sovversiva” secondo Armaroli. ”Ma mi preme una precisazione più tecnico-musicale: nel primo album in duo, il ‘Monk de-costruito’ prevedeva l’abbandono dell’improvvisazione sulla struttura armonica del blues e lo sviluppo estremo del concetto di variazione tematica che investiva anche l’aspetto timbrico (con una impostazione autenticamente novecentesca di melodia di timbri). In questo “Monkish” invece l’improvvisazione è condotta in un modo apparentemente tradizionale: tema e improvvisazione in un senso contrappuntistico, a quattro voci potremmo dire e in cui, ancora una volta, la struttura armonica è suggerita quasi “in negativo”.

Se di certo apprezziamo lo spirito colto del vibrafonista, non meno ne rileviamo lo spirito espositivo in parte criptico, carattere del resto ugualmente dispensato in buona parte dei passaggi del programma. E se la letteratura monkiana è stata rivisitata e reinterpretata anche secondo discendenze a volte impattanti e sanguigne (che non tradiscono lo spirito di revisione formale e in sostanza di rivolta del capitale autore e pianista), i presenti materiali palesano piuttosto un costruttivo ma mai costrittivo spirito ludico.

Si completa insomma un progetto ora esposto in due formule co-condotte da Schiaffini ed Armaroli, il quale conclude a commento per noi: “Tornando alla precedenti considerazioni, direi che il tutto di certo non ha una connotazione “politica” o sociale ma essenzialmente formale e musicale e, ancora, torno alla tua definizione di “naturale spirito eversivo”: mi sembra che metta in risalto uno stato di necessità che (e ne sono felice) non è poi così nascosto, sia nel mio modo di concepire il suono che di vivere “il jazz”… e poi, la musica come linguaggio mette sempre un certo ordine “formale” o meglio stilistico; ma questo è un altro discorso… e riguarda più chi ascolta e percepisce il risultato complessivo. L’improvvisazione vissuta è sempre uno stato di disequilibrio ed anche di felice disagio; appunto un “naturale spirito eversivo” per non cadere nel formalismo (oggi imperante!)”.

Nella presente riproposta di materiali monkiani, si palesa come questi siano lungi dall’aver esaurito il potenziale germinativo ed ispirativo e, nella comune e fresca concezione, spiccatamente anti-mainstream, i quattro sembrano imbastire una sorta di wormhole trans-temporale che ci lascia riconfigurare il passato storico da un’ottica futuribile e meta-stilistica.